sabato 29 marzo 2008

Il salvataggio pubblico di Bear Stern

Il mitico Massimo Mucchetti sulle colonne del Corriere di sabato ricostruisce il salvataggio pubblico di Bear che avevamo sommariamente anticipato su questo blog. La conclusione di Mucchetti è lapidaria: «un operazione che al di qua dell'Atlantico sarebbe stata contestata dalla commissione Ue.

Ecco l'articolo integrale di Mucchetti dal titolo: Bear Stern e la Fed: dietro le quinte del crack.

«Forse, per capire il caso Bear Stearns, più dei sermoni degli economisti vale la famosa battuta dei Blues Brothers: «Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». I duri del momento sono i banchieri centrali di New York che abbandonano il credo liberista e, pur di evitare il peggio, ricorrono a una leggina del 1932 per travolgere la regola che riserva alle sole banche commerciali, alimentate dai depositi dei risparmiatori, i finanziamenti speciali della Federal Reserve e lascia al loro destino le banche d'investimento, che si finanziano sul mercato dei capitali. L'aspetto curioso è che la realpolitik d'oltre Atlantico ha svolgimenti assai simili a quelli in uso nella vecchia Europa dei campioni nazionali, che usava lo strumento delle anticipazioni bancarie a tassi stracciati per rifinanziare i salvataggi a spese del Tesoro.
L'acquisizione di Bear Stearns da parte di JP Morgan Chase avviene fuori da ogni procedura di mercato per decisione della Federal Reserve. La Banca centrale sceglie come acquirente il vicino di casa, con il quartier generale tra la 47esima strada e Madison Avenue, e lo assiste con una sua garanzia a copertura delle perdite fino a 29 miliardi di dollari, una non recourse facility
che, al di qua dell'Atlantico, sarebbe contestata dalla Commissione Ue come aiuto di Stato.
La decisione è stata presa nella notte tra giovedì 13 e venerdì 14 marzo, dopo che il gerente della Bear Stearns, Adam Schwartz, si era presentato alla Federal Reserve dello Stato di New York per avvisarla di non poter più far fronte alle scadenze: un'umiliante beffa del destino per la banca d'investimento che, nella sua rapace presunzione, aveva respinto l'invito della Fed a partecipare al salvataggio del Long Term Capital Management, il cui fallimento, nel 1998, anticipa tutte le brutte storie del nuovo secolo.
La crisi era precipitata nel momento in cui l'agenzia di rating Moody's aveva declassato una serie di obbligazioni Bear Stearns di tipo Alt-A rappresentative di mutui concessi a una clientela migliore di quella dei subprime ma ormai anch'essa in troppi casi insolvente.
La circostanza sollecita più di una domanda. Ci si può chiedere perché Schwartz e la sua prima linea ancora l'8 febbraio 2008 qualificassero come strong ogni attività della ditta di fronte al Forum del Credit Suisse. E sì che sei mesi prima la sorte di Warren Spector, l'aggressivo responsabile del settore mutui già locupletato con 37 milioni di compensation per il 2006, avrebbe dovuto consigliare cautela.
Spector, come a suo tempo riferì l'agenzia Bloomberg, se ne era andato a Nashville nel Tennessee a disputare un torneo di bridge e, per non essere disturbato, aveva staccato il cellulare per una settimana. Alla fine scoprì di essere arrivato 95esimo su oltre 4 mila giocatori e di avere sul suo tavolo, al 383 di Madison avenue, la lettera di licenziamento perché, nel frattempo, due hedge fund promossi da Bear Stearns erano falliti e il titolo aveva perso un quarto del suo valore.
Ci si potrebbe chiedere se e perché, nonostante quell'avvertimento, Schwartz non si sia accorto che una quota crescente dei debitori non pagava i mutui in vario modo connessi agli strumenti finanziari in portafoglio. E ci può anche chiedere se e perché, essendosene accorto, non vi abbia posto rimedio visto che era improbabile un'ulteriore dormita delle agenzie di rating, da mesi sotto schiaffo per aver chiuso gli occhi troppo a lungo. E infine ci si può chiedere dove fosse e quali strumenti tecnici e concettuali usasse la pur celebrata Fed di fronte a una banca con un capitale di vigilanza formato per 12 miliardi da patrimonio netto e da 70 miliardi di prestiti subordinati et similia, una leva finanziaria impensabile al di qua dell'Atlantico. Ma quando la frittata è fatta, è fatta. E allora resta solo un'ultima domanda: aveva altre opzioni la Banca centrale?
Certo, la mina andava disinnescata entro il fine settimana per evitare il panico. La Fed aveva due armi: la riduzione del tasso di sconto ela discount window che apre solo per un ristretto numero di grandi banche commerciali americane. Ben Bernanke, il presidente della Banca centrale, le ha largamente usate: ha tagliato di un punto i tassi e ha concesso 29 miliardi di garanzia. Si potrà malignare sulla patria della deregulation che ricorre agli aiuti di Stato e, dopo aver predicato la libera circolazione dei capitali, li riserva alle imprese domestiche non diversamente da quanto facevano le banche centrali della vecchia Europa prima dell'euro.
Ma resta il fatto che Bear Stearns era tecnicamente fallita: per onorare le sue obbligazioni, avrebbe dovuto realizzare attivi a prezzi di saldo imbarcando perdite tali da azzerare il magro capitale sociale e da trovarsi poi in stato di insolvenza. Il timore che il tracollo di Bear Stearns contagiasse il resto del sistema ha dunque fatto premio su tutto.
Poteva Bernanke scegliere un salvatore diverso da JP Morgan Chase? Nella notte fatale, ormai, non avrebbe potuto. Era troppo tardi. Bear Stearns è un animale abbastanza grosso. I suoi attivi ammontano a 395 miliardi di dollari, il 44% di quelli di Intesa Sanpaolo giusto per dare un'idea. Le altre banche d'investimento newyorkesi — Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Lehman Brothers — non hanno la dimensione e la liquidità necessaria per assorbirli. Arrivano al massimo a 1100 miliardi di attivi e, soprattutto, hanno mezzi propri per non più di 30-40 miliardi. Maggiori risorse si potrebbero trovare nelle grandi banche commerciali, ma Citi, Bank of America e Wachovia, a parte le difficoltà congiunturali talvolta gravi, non hanno l'esperienza di investment banking necessaria a prendere in mano una Bear Stearns e a valutarne gli attivi, tagliando quel che c'è da tagliare.
JPMC, invece, è il risultato dalla fusione tra la storica banca d'investimento JP Morgan e la grande banca commerciale Chase. Possiede il mestiere, ha attività totali quadruple rispetto a Bear Stearns e mezzi propri per 123 miliardi, e dunque ha anche la stazza. Di più, JPMC presenta un bilancio 2007 con un utile netto consolidato di 15 miliardi di dollari.
Resta tuttavia l'incognita dei rischi di controparte tra cacciatore e preda. Non si sa quale sia l'esposizione globale di JPMC, che capitalizza in Borsa 150 miliardi di dollari, verso Bear Stearns. Forse il dato verrà reso noto nel prospetto informativo sulla fusione, che seguirà la prima fase del salvataggio, ovvero l'acquisizione del 39,5% di Bear Stearns. Ma interpellate dal Corriere le fonti ufficiali tacciono.
E' stato invece chiarito che sui libri di Bear Stearns figurano 2 miliardi di subprime, 15 di mutui prime e Alt-A e 16 di commercial mortgage- backed securities. Di questi 33 miliardi, JPMC potrà cederne 20 alla Fed escutendo la garanzia. Che coprirà, per i 9 miliardi rimanenti, altri crediti di Bear Stearns sui quali JPMC avesse dubbi. La garanzia dovrebbe durare oltre un anno, ma la scadenza non è stata indicata. Né sono noti i criteri in base ai quali JPMC scaricherà gli attivi traballanti alla Fed. Eppure, sarebbe bene conoscerli per verificare come sono valutate le stesse obbligazioni da parte delle altre banche che le detengono.
Questa vicenda ha innovato sul campo una regola: ora anche le banche di investimento non potranno più fallire, nessuna potrà più essere abbandonata al proprio destino JPMC e a poco meno della metà del suo patrimonio netto tangibile, ovvero del patrimonio depurato dagli avviamenti che, per quanto certificati, sono in genere un po' meno attendibili di prima.
Nessuno oggi può dire quali saranno le prossime perdite di Bear Stearns, se supereranno o meno la soglia dei 30 miliardi di dollari. E' certo, comunque, che il primo miliardo di perdite lo assorbirà JPMC e tutto il resto sarà a carico della Fed. La quale dunque si è caricata sui suoi libri un rischio di 29 miliardi di dollari. E al tempo stesso — ed è quel che più conta — ha innovato sul campo la regola: ora anche le banche d'investimento non potranno più fallire. Non è infatti pensabile che Bear Stearns venga protetta ed eventuali concorrenti in crisi siano abbandonate al loro destino.
Questa innovazione di grande rilievo politico è stata presa senza alcun coinvolgimento di un potere politico che aveva forse dimenticato la leggina del 1932. Ma che ora dovrà pur verificare la tenuta e i costi dell'attuale regolazione».
Massimo Mucchetti

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