lunedì 31 marzo 2008

Ubs: altri 18 miliardi di svalutazioni. E l'ad lascia

La principale banca elvetica dovrà rivedere nuovamente i conti e procedere ad un nuovo aumento di capitale perchè ha scoperto, si fa per dire, nuovi buchi per oltre 12 miliardi di dollari. Così ieri notte il presidente e ad Marcel Ospel ha rassegnato le dimissioni.
Su Ubs, intanto, si accendono i riflettori della magistratura tedesca dopo che un documentario dell'emittente pubblica Zdf ha lasciato intendere che la banca sarebbe pronta ad aiutare i contribuenti nazionali ad evadere il fisco attraverso il Liechtenstein.I cronisti di Frontal 21 hanno visitato una filiale della Ubs a Baden-Baden (nella regione del Baden-Wuerttemberg, a Sud Ovest della Germania) e, spacciandosi per potenziali clienti in cerca di un modo per mettere il denaro al sicuro senza attirare l'attenzione del fisco, hanno registrato con telecamere nascoste i loro incontri con i dipendenti dell'istituto. Questi, hanno consigliato ai cronisti alcuni metodi per evadere il fisco, come la creazione di fondazioni nel Liechtenstein, vale a dire lo stesso strumento che secondo l'inchiesta in corso è stato utilizzato nella maggior parte dei casi dai clienti tedeschi della Lgt Group, la banca del Liechtenstein al centro dello scandalo scoppiato di recente. Un portavoce del tribunale di Baden-Baden ha spiegato che il tribunale di Mannheim (Sud Ovest) sta "esaminando" le attività della banca.

Le caratteristiche della crisi - Bellofiore

Ecco l'altra interessantissima analisi sulla crisi finanziaria vista da Riccardo Bellofiore, docente di scienze economiche dell'Università di Bergamo, intervistato da Claudio Jampaglia per Liberazione di domenica 30 marzo


Crisi del sistema, non crollo
Sinistra copia Roosevelt

Claudio Jampaglia

Greenspan parla di crisi più grave dal secondo dopoguerra, altri economisti sono meno pessimisti: il tuo giudizio?
Non è solo Greenspan a parlare di crisi di dimensioni gravissime. Per trovare un paragone adeguato George Soros risale addirittura al 1929. Hanno ragione. Con tutta evidenza siamo a una svolta dentro la crisi, a una crisi del sistema. Intanto, però, la sinistra è stata abbacinata dall'ottimismo sostanzialmente apologetico del post-operaismo, dal pessimismo disfattista di chi si limita a registrare la frammentazione del lavoro o dal keynesismo fuori tempo massimo. Si accorge delle dinamiche profonde del capitalismo contemporaneo solo nei momenti di crisi conclamata. Crisi però non significa crollo. Significa ristrutturazione. E può significare, nei momenti di svolta, grande innovazione istituzionale di parte capitalistica.
Come è nata la crisi?
La crisi finanziaria della scorsa estate covava da tempo. Lo sgonfiamento della bolla immobiliare ha generato la crisi dei subprime (i mutui ad alto rischio alle famiglie povere) per aggravarsi e arrivare alla crisi delle banche di investimento. Il bisogno dell'intervento delle banche centrali quali prestatori di ultima istanza è divenuto parossistico, e la spinta ad una riduzione dei tassi di interesse si è rivelata irresistibile. Questa volta la crisi ha avuto come nodo cruciale il fatto che le proprietà requisite perdevano di valore, e sono iniziate le esplosioni nel campo minato della nuova finanza. Ciò che doveva rendere trasparente il mercato e minore il rischio ha fatto invece collassare le relazioni tra operatori per l'opacità dell'informazione, per la corruzione delle agenzie di rating , per l'impossibilità di sfuggire all'azzardo morale. Una smentita clamorosa di chi aveva scommesso sulla progressività del capitalismo dei "derivati", altra faccia del capitalismo della conoscenza. Ma è anche clamoroso che il "nuovo" capitalismo crolli sui due terreni dove, dopo il 1989-91, aveva reclamato una superiorità del mercato sul piano: l'informazione e la fiducia.
Come inquadreresti invece, teoricamente, la crisi?
Aiuta a capire qualcosa di quel che è successo un economista eterodosso statunitense morto nel 1996, Hyman P. Minsky. Per Minsky, il capitalismo tende sempre a far degenerare la stabilità in instabilità. Quando la prosperità va avanti da un po', le posizioni degli operatori da "coperte" si fanno più coraggiose, e divengono "speculative": in alcuni periodi i "profitti" sperati sono inferiori ai pagamenti per interesse e per restituzione del capitale, e ci si deve rifinanziare. Al rischio "economico" si affianca quello "finanziario", per l'aumento dei tassi di interesse o per la riduzione dei prezzi delle attività. Quando l'euforia diviene irrazionale, si intrattengono posizioni "ultraspeculative": ci si indebita nella speranza di futuri guadagni "eccezionali" (aumento del corso delle azioni, rivalutazioni degli immobili, ecc.), che soli possono giustificare l'investimento, senza quei profitti fantasiosi l'investimento non può che essere in perdita. “Le cose si dissociano, il centro non può reggere”, un verso di Yeats che Minsky citava spesso. Quando la bolla scoppia, l'alternativa è secca. Deflazione da debiti: con il fantasma del ripetersi di un Grande Crollo. Oppure intervento politico: la Banca centrale come "prestatore di ultima istanza", che inietta liquidità a basso costo e la spesa pubblica in disavanzo che sostiene i profitti monetari.

La crisi, quindi, si svolgerà in tempi lunghi su un cambio di regime del capitalismo e della politica economica?
Non si capisce nulla di questa crisi senza capire le novità del capitalismo contemporaneo e della sua politica economica di appoggio. Crisi finanziarie alla Minsky si sono avute a ripetizione dopo la svolta neoliberista degli inizi degli anni 80. La spiegazione di Minsky però da sola non basta. Minsky centra il ragionamento sulla domanda di beni capitali fissi, il che spiega poco della new economy e niente della ripresa Usa dal 2003. Resta comunque vero che dalla metà degli anni 90 lo sviluppo economico si ha con l'effetto "leva finanziaria" che ha sostenuto la spesa dei consumatori senza la quale l'economia mondiale sarebbe scivolata nella stagnazione. La bolla delle dot.com, come quella immobiliare, sono state legate soprattutto all'indebitamento delle famiglie. E hanno fatto dell'economia Usa l'acquirente di ultima istanza del capitalismo mondiale per i neomercantilismi europei e asiatici. Oggi questo circuito chiuso della realizzazione monetaria del plusvalore è in crisi. Si è accelerata la svalutazione del dollaro e sono iniziate le grandi manovre. Nella misura in cui la crisi sarà seria, come credo, il capitale sarà costretto a mettere mano al sistema di regolazione macroeconomico e agli equilibri geopolitici. Gli scenari vanno dalla crisi generale alla ricostruzione dell'edificio dalle fondamenta.

In questo quadro che succede alla terna lavoratore "spaventato" - consumatore "indebitato" - risparmiatore "terrorizzato" di cui hai parlato nei tuoi lavori?
Il risparmiatore terrorizzato è in realtà affetto da una sindrome "maniacale-depressiva". Il lavoro viene incluso nel capitale per il tramite degli intermediari e dei fondi, il risparmiatore viene cullato nella sua fase "maniacale". Grazie all'effetto ricchezza per la rivalutazione delle attività, il consumatore si indebita sempre di più. Ciò avviene in un contesto in cui il lavoratore è sempre più "spaventato" dalla pressione della ristrutturazione e della globalizzazione. Greenspan lo sa bene: è lui che ha coniato l'espressione lavoratore "traumatizzato". Per questo oggi, quando la disoccupazione cade, i salari non aumentano. La famigerata curva di Phillips, su cui si è incancrenito il dibattito tra gli economisti monetaristi e keynesiani per 40 anni, è ora piatta. Peccato che la compressione dei salari faccia sì che la domanda abbia bisogno di una inflazione dei prezzi delle "attività" per sostenere i consumi privati. L'esplosione della bolla fa emergere la fase "depressiva" del risparmiatore. Si diffonde il timore del crollo del consumo perchè tutti hanno necessità di rientrare dal debito. Queste dinamiche si traducono in ulteriore pressione nei processi capitalistici di lavoro. Il recente aumento dei prezzi del petrolio, delle materie prime, dei beni agricoli, dell'oro, in parte sono trainati da dinamiche speculative e di assicurazione rispetto all'incertezza schizzata alle stelle, in parte hanno a che vedere con la ristrutturazione geografica e politica del capitalismo attuale, in parte sono legati alla svalutazione del dollaro. Le politiche monetarie, in primis quella della Bce, fanno sì che questi aumenti ricadano sui lavoratori, riconfermando la deflazione salariale. La promessa di recuperare il potere d'acquisto grazie alla riduzione dei prezzi o alla partecipazione alla rendita finanziaria non è altro che un miraggio.

Consumatore indebitato, risparmiatore "maniacale-depressivo". E il lavoratore?
La sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito non è separata dall'approfondimento dello sfruttamento nella produzione. La centralizzazione finanziaria e del comando, il primato nella filiera produttiva, si accompagna a dimensioni tecniche di impresa che crescono meno di un tempo (di qui anche il recente risorgere delle "medie" imprese), e ad un lavoro che non viene omogeneizzato dalla sua concentrazione giuridica e tecnica nello stesso luogo, e/o nella stessa "fabbrica", e/o nello stesso contratto. La soggezione delle "famiglie" ai mercati finanziari e al debito per il consumo costringe a tempi di lavoro più lunghi e intensi, e muta la natura del lavoro: che da attività svolta secondo un piano e sotto controllo diretto diviene, quale che sia la natura giuridica del rapporto, compito da svolgere con "flessibilità" in una finta autonomia. Tutto ciò è accelerato dai criteri di gestione legati alle nuove strutture proprietarie e di controllo. Sono i gestori dei fondi pensione, che raccolgono i risparmi vitali dei lavoratori, a pretendere rendimenti elevati sul capitale proprio, a volere scelte penalizzanti sull'occupazione e sulle condizioni di lavoro di altri lavoratori, a spingere sul pedale delle esternalizzazioni. Il "capitalismo patrimoniale" vede un primato dei piccoli azionisti, ma in forma alienata, per cui a decidere sono coloro che hanno il potere di gestire quel risparmio, e pretendono nel breve termine alti tassi di rendimento sul capitale proprio.

Stai descrivendo un modello trainato solo dalla speculazione. E' la fine del liberismo per come lo abbiamo conosciuto?
E' in parte vero che è un modello tirato dalle dinamiche speculative. Non puoi però separare finanza ed economia reale. Sono queste dinamiche finanziarie ad aver sostenuto la domanda effettiva negli ultimi 10-15 anni. Sono queste stesse dinamiche a determinare ora la crisi reale. Quello che descrivo è una sorta di paradossale "keynesismo" finanziario, in cui i profitti futuri si nutrono di debito crescente, non solo delle imprese o dello Stato, ma anche e sempre più, delle "famiglie". I bassi salari vengono compensati dagli effetti ricchezza su una ricchezza cartacea o immobiliare talora fantasiosa, che può svanire da un momento all'altro, e a quel punto il riaggiustamento è violento. Si potrebbe definire una espansione della domanda tirata dalle bolle speculative nelle "attività", politicamente gestita. Altro che liberismo! Parola che la sinistra usa a sproposito: salvo poi stupirsi di un Tremonti, e scambiare i social-liberisti per liberisti temperati.

Mancanza di crescita, che lascia la finanza in assoluta balia di se stessa, risponderebbero in molti...
La crisi del 2000-1 fu tamponata con più moneta, più spesa militare, meno tasse per i ricchi, e si prolungò sino a metà 2003. Le imprese, nel frattempo, ripianarono i propri bilanci. La crescita degli anni successivi non ha più avuto a che fare con dinamiche di innovazione tecnologica. La crescita è ripartita solo grazie all'indebitamento delle famiglie povere. Il mercato immobiliare era stato favorito dal crollo dei tassi di interesse dell'inizio del terzo millennio, e venne in soccorso di un nuovo modello in difficoltà appena nato. Con prezzi delle case che salivano, e con la rinegoziazione dei mutui ipotecari a tasso variabile, le case erano diventate un bancomat. La Federal Reserve ha favorito questo processo, prima sostenendo i prezzi dell'immobiliare, poi per il tramite dei nuovi strumenti di credito finanziati dalle banche commerciali. Ora deve correre in soccorso e puntellare l'edificio che crolla.

Che ne pensi del riemergere dello spettro del 1929?
Qui ci è ancora utile Minsky. Il quesito "Potrebbe ripetersi?" riemerge ciclicamente. Minsky era scettico, a ragione, sul ripetersi di un Grande Crollo. Il laisser faire è per i poveri, non per i ricchi: ne abbiamo la testimonianza in queste settimane. La Banca Centrale non si limita a fornire liquidità a basso costo: non ha scelta, deve salvare la casino economy . La politica monetaria ha però efficacia limitata, specie se il problema è l'insolvenza. Bernanke non si è potuto fermare a ridurre, sempre più a rotta di collo, i tassi di interesse. Ha dovuto aprire linee di credito non solo alle banche commerciali ma anche alle banche di investimento: una delle innovazioni istituzionali cui accennavo. Deve accettare come collaterali strumenti della finanza "tossica". Ha fatto acquistare a prezzi di saldo Bear Sterns, dando all'acquirente la garanzia di un credito enorme nel caso di brutte sorprese nei bilanci di quella società. Si parla ora di un possibile acquisto diretto sui mercati delle mortgage backed securities da parte dello Stato. Prossimamente, possiamo attenderci mosse coordinate tra le banche centrali sul dollaro, per far sì che la necessaria svalutazione sia "ordinata" (e tra parentesi non credo ad una fuga suicida dal dollaro di Cina e altri paesi creditori, al limite a differenziazione dei nuovi flussi di investimento). Solo così il rapporto con i paesi esportatori negli Usa può essere tutelato. Solo così l'entrata in campo dei fondi sovrani per ricapitalizzare fondi e banche in crisi può essere facilitato. E' in atto un "deceleratore finanziario" potentissimo. Quando il ciclo si inverte, le perdite costringono le banche a snellire i loro bilanci, questo induce a vendere attività. Cadono i loro prezzi, si amplificano le perdite delle banche, in una perversa spirale al ribasso. Gli istituti di credito devono stringere ulteriormente i cordoni della borsa. Per questo arriveranno interventi sul come valutare le attività nei bilanci delle istituzioni creditizie (non più ai valori di mercato: conveniva ieri, non più oggi) e regole più restrittive del credito.

Esiste la soluzione di un ritorno al keynesismo?
No - nè era questa la risposta dello stesso Minsky, un keynesiano ben cosciente dei limiti del keynesismo per come lo abbiamo conosciuto. E', detto tra di noi, abbastanza paradossale che chi dava per obsoleto Keynes al cambio di millennio, oggi lo invochi. Non vi è dubbio che nel capitalismo finanziariamente sviluppato siano necessari elevati e crescenti disavanzi del bilancio pubblico. Occorre un Big Government . Minsky però ci avverte che l'intervento della Banca Centrale e i disavanzi di bilancio, se non qualificati nei contenuti, si limiteranno a riprodurre nel futuro su scala allargata, il ciclo instabilità -crisi. Occorre una "socializzazione degli investimenti": formula di Keynes, di cui Minsky dà però una lettura radicale. Un piano del lavoro che garantisca la piena occupazione. Investimenti pubblici che migliorino la produttività del sistema. Minsky ha in mente il New Deal , non il keynesismo degli anni 60-70, che detestava. Oggi, la sinistra ha paura di parlare di queste cose, e balbetta di qualche correzione distributiva.

La sinistra, quindi, è radicale a parole, ma poco nelle analisi e nelle ricette?
Una forza di sinistra non è tale se non pone sul tappeto il tema della ridefinizione strutturale della produzione. L'età keynesiana si è chiusa con una crisi direttamente sociale. Non si pose in discussione solo la distribuzione, ma anche modi del lavoro, contenuti della produzione, riduzione di corpo e mente a mero strumento. Il capitale ha risposto con la svolta monetarista, che fece impennare la disoccupazione di massa. Ne è seguita la "centralizzazione senza concentrazione": che ha frammentato il lavoro, trasformato la disoccupazione in sotto-occupazione, precarizzato la vita. La crisi del nuovo capitalismo è anche l'insostenibilità, economica ed ecologica, dei modelli di produzione e di consumo. Non se ne esce se non si è in grado di riprendere la sfida su "cosa" e su "come" si produce. E' qui che si uniscono in avanti le ragioni del lavoro, della natura, del genere. Su questo la sinistra tace, o rimanda a tempi migliori, e ragiona per somma delle "differenze". E' chiaro che limitarsi a parole d'ordine contabili sulla finanza pubblica o a domande redistributive, è inefficace e subalterno. In questi anni, d'altronde, non ci ha portato da nessuna parte. E' mille volte più coraggioso Howard Zinn che proprio su Liberazione (ripreso da The Nation ), proponeva: "Se facessimo come Roosevelt?". E viene dalla sinistra radical degli Stati Uniti, che siamo abituati a guardare dall'alto in basso. A me pare che, oggi, o si parte da una doppia dichiarazione di fallimento - della sinistra radicale italiana, che in questi anni ha sbagliato pressochè tutto, dalle analisi alle proposte; e dei suoi intellettuali di riferimento, in primis gli economisti - o il "nuovo inizio" di cui tanto si parla e che tanto si invoca, non vedrà mai la luce.

Zunino vale solo meno di un terzo

Mentre il patron di Risanamento cerca di salvare il salvabile, sotto la pressione delle banche creditrici, arriva un impietosa analisi di Intermonte sul valore delle aree e degli immobili in portafoglio alla società di Luigi Zunino. Secondo gli analisti della sim Santa Giulia, il nuovo quartiere residenziale per super ricchi, avrebbe un valore di circa 580 milioni di euro contro 1,7 miliardi valutati da Risanamento e le aree Falck, dove dovrebbe sorgere il progetto di Renzo Piano, solo 533 milioni contro 1,3 miliardi. Complessivamente il valore degli asset di Risanamento secondo la sim Intermonte sarebbe quindi di 3,022 miliardi (contro i 5,5 dichiarati dalla holding di Zunino): un valore pericolosamente vicino ai debiti che ammontavano a fine 2007 a 2,410 miliardi.

Le caratteristiche della crisi - Eichengreen

Domenica due economisti hanno tracciato con estrema lucidità le caratteristiche della crisi finanziaria. Ecco la prima intervista, pubblicata dal Sole, a Eichengreen docente a Berleley che dice con estrema chiarezza che la così detta innovazione finanziaria deve essere profondamente rimessa sotto controllo

«Usa in recessione fino al 2009»

di Mario Margiocco
«L'Europa alla fine risulta meno sofisticata, ma più affidabile ». Barry Eichengreen, 55 anni, insegna a Berkeley Economia e Scienza Politica ed è considerato fra i massimi esperti del sistema monetario e finanziario. Nei giorni scorsi a Genova, ha presentato con Marc Flandreau uno studio sui tempi in cui il dollaro diventò prima moneta internazionale. Era il 1925, cioè 20 anni prima di quanto si pensi. E spiega in questa intervista come, fra dieci anni, assai prima di quanto si pensasse, il dollaro dovrà dividere alla pari con l'euro questo ruolo. L'accelerazione è imposta dalla crisi finanziaria americana. «Siamo nella fase più delicata degli ultimi 70 anni », dice Eichengreen rispondendo al Sole- 24 Ore. La recessione americana è dura e quella europea, che ci sarà, potrebbe esserlo meno. Wall Street è in cura intensiva. Salvata in 10 giorni, a partire dalla forzata vendita di Bear Stearns nel fine settimana di St. Patrick ( 15-16 marzo), da 300 miliardi di titoli sicuri offerti in cambio di titoli traballanti. L'hanno tenuta a galla Federal Reserve, Tesoro, e il contribuente americano. Garantendo anche per le banche di investimento che Fed e sistema di supervisione non controllano con adeguati poteri, ma che andavano puntellate. Una rivoluzione. Costosa. Il mondo è cambiato dopo la fine del grande banchetto finanziario che ha avuto molti commensali, ma che resta identificato con gli Stati Uniti. La crisi finanziaria, e qui parla il politologo, ha anche inciso negli ultimi giorni sulla corsa alla Casa Bianca.

Quanto durerà la recessione negli Stati Uniti?

Si parla di due trimestri. Ma credo che la crescita non tornerà fino a 2009 avanzato. Quindi ci vorrà ben più del doppio. Al momento è il solo export a tenere grazie al dollaro basso, ed è bene così, purché non sfugga di mano. Tutto il resto è fermo, con l'edilizia bloccata, il sistema finanziario da ripulire ampiamente, le banche da ricapitalizzare.

L'Europa si salverà dalla recessione?

No. Ma sono assai meno convinto sulla durata e l'intensità di quella europea. Il vero decoupling
è un mito, e la frenata del consumatore americano si farà sentire. Inoltre anche l'Europa ha le sue crisi. Anche qui varie banche si sono esposte troppo su mutui subprime e derivati e il danno non è ancora chiaro. Il mercato immobiliare di Spagna e Irlanda, in grave crisi, potrebbe rivelarsi simile a quello americano. Quindi anche in Europa vedo scattare la formula nefasta di rallentamento della crescitae di problemi nel credito, ma in misura meno grave. Qui sì ci potrebbero essere due trimestri di recessione. La Bce farebbe quindi bene a ridurre i tassi, anche se l'Europa è un po' diversa.

In che senso?

Avendo abbracciato con minore entusiasmo la sofisticazione e l'ingegneria finanziaria, risulta alla fine più affidabile. Non è poco in un mondo dove gli investitori sono sempre più di Paesi terzi e possono scegliere tra una piazza europea e una americana, oltre a sviluppare sempre di più le proprie piazze finanziarie.

Wall Street perderà status?

Non è detto. Dipende da come si muoveranno la comunità bancaria, il Congresso, la Fed e il Tesoro. Da almeno un paio d'anni si diceva negli Stati Uniti che Wall Street perdeva terreno perché gravata dalle nuove normative seguite allo scandalo Enron del 2001-2002, a partire dalla legge Sarbanes-Oxley. Ora, dopo l'eccesso di derivati e dopo la tragedia dei mutui subprime, è chiaro che qualcosa va fatto, ma in senso contrario, con nuove regole, chiare e stringenti, che sono mancate. La deregulation alla fine ha compromesso il buon senso. Il Congresso e le autorità di sorveglianza possono incidere molto scoraggiando gli eccessi di ingegneria finanziaria, e la Fed può fare molto scontando in modo più favorevole prodotti più semplici e chiari, e incentivando chi emette mutui a tenerne una parte in portafoglio, come si fa in Europa, e non a cartolarizzarli e venderli tutti per disfarsene al più presto. Wall Street ha tutta la tradizione necessaria. Deve solo riscoprire un po' delle vecchie e più prudenti regole. L'abbraccio entusiasta dell'innovazione è insieme una grande forza e una debolezza dell'America.

Gli investitori internazionali alleggeriscono le posizioni in dollari e l'ultima asta dei titoli a 10 anni (Treasury notes) del Tesoro americano ha visto a metà marzo un netto calo di interesse; invece del solito 25% di media solo un 5,8% è andato a non residenti. Se si ripete alla prossima asta, sarà il panico?

Ci sono due aspetti. Come ho detto, è bene che il dollaro sia basso ora per gli Stati Uniti, un po' meno ovviamente per l'Europa. Ma non deve sfuggire di mano. Per questo l'esito dell'asta ha preoccupato e si è parlato di un intervento di sostegno al dollaro, se dovesse ripetersi. È evidente che c'è una fuga dal dollaro. Ci sono banche centrali che ne hanno troppi, a partire dalla Cina. Ma l'alleggerimento, in corso da tempo, deve avvenire in modo controllato. Abbiamo già avuto nella storia monetaria, ma in un contesto completamente diverso e ben più sfilacciato, un caso di eccesso di riserve con la Banque de France all'inizio degli anni '30, e un alleggerimento eccessivo e destabilizzante di sterline, e poi un eccesso altrettanto destabilizzante di accumulo di oro. Ma prendo i paralleli con prudenza. La Storia serve di più per mettere a fuoco le differenze, sotto analogie apparenti.

E dov'è l'analogia?

Da metà degli anni '20 al '29 la moneta che dava più sicurezza era il dollaro e le banche centrali ne fecero incetta, come riserva. Poi ci si spostò sulla sterlina, che Parigi acquistò in modo abnorme, subendo forti perdite e poi scaricandola e contribuendo alla svalutazione del 1931, per buttarsi poi sull'oro con altri inconvenienti globali da deflazione. Ora, i Paesi con i Fondi sovrani più attivi hanno un eccesso di riserve in dollari e cercano quindi di diversificare. Il Fondo sovrano insomma è uno strumentodi diversificazione delle riserve monetarie. La stessa corsa alle materie prime è una forma di diversificazione.

E l'euro?

È già molto importante e sta crescendo e credo che fra 10 anni al massimo il suo utilizzo come valuta internazionale sarà alla pari con il dollaro. La crisi finanziaria attuale, che ha colpito e colpirà anche l'Europa con qualche nuova crisi delle sue banche, si è identificata però con gli Stati Uniti, e questo favorirà l'Europa e l'euro. Ma va ricordato che avere due monete di riferimento internazionale è stato nella storia degli ultimi due secoli più la norma che l'eccezione. L'eccezione è stata piuttosto la seconda metà del 900 con il dominio assoluto del dollaro. L'Europa ha un'economia analoga a quella americana ed è naturale che esprima una moneta internazionale.

La crisi finanziaria da subprime, derivati, ed eccesso di debiti peserà sulle elezioni di novembre?

Per ora dico quello che dicono i bookmakers londinesi sulla nomination democratica, e cioè che Obama ha più probabilità di Hillary Clinton. Per novembre, chiunque sia l'avversario di John McCain, non faccio previsioni, troppo difficile. Nella scelta del presidente conta parecchio la simpatia istintiva, e McCain la suscita. Molti votano per simpatia umana, anche se le idee non sempre coincidono. È il fattore fiducia. Ma McCain ha però due handicap, anzi tre, oltre all'età. Rappresenta il partito che ha avuto la Casa Bianca negli ultimi otto anni. È a favore di una guerra impopolare, per i più. Ed è per una politica di hands off o quasi rispetto a Wall Street. Ora, o sviluppa una linea più interventista, visto che sarà il contribuente a sanare le voragini, o la cosa peserà contro di lui.

domenica 30 marzo 2008

Telecom annaspa. Buora e Ruggiero proprio no!

L'ultima novella della saga Telecom ha, come al solito, della clamorosa e gigantesca beffa. Ai risparmiatori e azionisti dell'ex monopolista pubblico ma anche alle decine di milioni di clienti e ai cittadini italiani. Riccardo Ruggiero, già ad di Telecom, e Carlo Buora, ex vicepresidente, hanno ricevuto rispettivamente quasi 17 e 12 milioni di euro come liquidazione per il loro "contributo" al business aziendale. E che contributo! Una recente analisi pubblicata da Plus del Sole 24Ore (15 marzo 2008) ha evidenziato che nel periodo 2002-2006 Telecom ha speso ben 16 miliardi di euro solo di oneri finanziari. Nei quattro anni dal 2003 al 2006, secondo i dati R&S Mediobanca, 32 miliardi di risorse sono stati impiegati per investimenti finanziari e dividendi, mentre agli investimenti industriali nello stesso lasso di tempo sono finiti solo 12,5 miliardi, un quinto del totale degli impieghi complessivi del gruppo nel periodo. I copiosi dividendi pari al 5% annuo, hanno peggiorato i conti dell'azienda ma hanno fatto contenti i principali azionisti che come Olimpia avevano bisogno di compensare l'andamento disastroso del titolo. Una strategia completamente ribaltata oggi dal nuovo management alle prese con una situazione finanziaria molto difficile che ha dovuto tagliare i dividendi ma anche gli investimenti.

sabato 29 marzo 2008

Il Tesoro Usa ha un piano. Ma è insufficiente

Le agenzie hanno battuto numerosi dispacci. Ma le anticipazioni, almeno per ora, non convincono per nulla. Il segretario al Tesoro Paulson lunedì 31 presenterà la riforma dei controlli sul sistema finanziario. Troppo poco per contrastare il disastro post subprime.

Ecco nel dettaglio cosa dirà Paulson lunedì secondo l'Ansa

FED: ARRIVA LA RIFORMA PAULSON, AVRA' PIU' POTERI NEW YORK - Una Fed con più poteri sui colossi di Wall Street per mantenere la stabilità dei mercati. Dopo un anno di lavoro, lunedì prossimo l'amministrazione Bush presenterà un progetto di riforma della autorità regolatrici del mercato, nel quale è previsto che il Congresso ampli i poteri della banca centrale che potrà anche inviare team specializzati presso qualsiasi istituzione che potrebbe mettere a rischio l'intero sistema.

A uscire depotenziata dalla riforma sarà, invece, la Sec per cui è prevista la fusione con la Commodity Futures Trading Commission. Il progetto messo a punto dal governo potrebbe far diventare la banca centrale "il regolatore della stabilità dei mercati" del governo. Il segretario al Tesoro americano, Henry Paulson, lavora alla riforma da quasi un anno: "Abbiamo iniziato a studiare la struttura di regolamentazione dopo una conferenza sulla competitività nei mercati dei capitali nel marzo 2007", si legge nell'estratto di proposta di riforma pubblicato dal New York Times.

Nella proposta, il Tesoro presenta una serie di raccomandazioni a breve e medio termine "in grado di migliorare da subito e di riformare la struttura di regolamentazione" del sistema finanziario. "Le raccomandazioni a breve termine si incentrano sull'agire subito per migliorare il coordinamento. Le raccomandazioni di medio termine - prosegue il testo pubblicato dal New York Times - si focalizzano invece sulla necessità di eliminare alcune delle duplicazioni del sistema di regolamentazione americano, ma soprattutto sul cercare di modernizzarlo".

Il piano potrebbe esporre le banche di investimento e gli hedge found di Wall Street a una maggiore sorveglianza, ma evita di dare regole più stringenti. Nel testo è prevista la creazione del 'Prudential Financial Regulator', che guiderà le cinque agenzie federali per la supervisione delle banche. Dovrebbe invece venire chiuso l'Office of Thrift Supervision, mentre non viene esclusa la possibilità di creare un regolatore nazionale sulle assicurazioni.

"Non sto dicendo che una maggiore regolamentazione è la risposta, o che una regolamentazione più efficace può prevenire periodi di stress sul mercato finanziario che sembrano verificarsi ogni 5, 10 anni - scrive il New York Times riportando un estratto della bozza del discorso che Paulson terrà lunedì -. Sto solo suggerendo che potremmo e dobbiamo avere una struttura più adatta ai tempi in cui viviamo, una che sia più flessibile". Nelle ultime settimane la Fed è stata oggetto di critiche per il ruolo attivo giocato nel salvataggio di Bear Stearns e per il suo atteggiamento nei confronti di Wall Street, visto che per la prima volta dagli anni '30 ha aperto anche alle banche di investimento la finestra del tasso di sconto.

Il salvataggio pubblico di Bear Stern

Il mitico Massimo Mucchetti sulle colonne del Corriere di sabato ricostruisce il salvataggio pubblico di Bear che avevamo sommariamente anticipato su questo blog. La conclusione di Mucchetti è lapidaria: «un operazione che al di qua dell'Atlantico sarebbe stata contestata dalla commissione Ue.

Ecco l'articolo integrale di Mucchetti dal titolo: Bear Stern e la Fed: dietro le quinte del crack.

«Forse, per capire il caso Bear Stearns, più dei sermoni degli economisti vale la famosa battuta dei Blues Brothers: «Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». I duri del momento sono i banchieri centrali di New York che abbandonano il credo liberista e, pur di evitare il peggio, ricorrono a una leggina del 1932 per travolgere la regola che riserva alle sole banche commerciali, alimentate dai depositi dei risparmiatori, i finanziamenti speciali della Federal Reserve e lascia al loro destino le banche d'investimento, che si finanziano sul mercato dei capitali. L'aspetto curioso è che la realpolitik d'oltre Atlantico ha svolgimenti assai simili a quelli in uso nella vecchia Europa dei campioni nazionali, che usava lo strumento delle anticipazioni bancarie a tassi stracciati per rifinanziare i salvataggi a spese del Tesoro.
L'acquisizione di Bear Stearns da parte di JP Morgan Chase avviene fuori da ogni procedura di mercato per decisione della Federal Reserve. La Banca centrale sceglie come acquirente il vicino di casa, con il quartier generale tra la 47esima strada e Madison Avenue, e lo assiste con una sua garanzia a copertura delle perdite fino a 29 miliardi di dollari, una non recourse facility
che, al di qua dell'Atlantico, sarebbe contestata dalla Commissione Ue come aiuto di Stato.
La decisione è stata presa nella notte tra giovedì 13 e venerdì 14 marzo, dopo che il gerente della Bear Stearns, Adam Schwartz, si era presentato alla Federal Reserve dello Stato di New York per avvisarla di non poter più far fronte alle scadenze: un'umiliante beffa del destino per la banca d'investimento che, nella sua rapace presunzione, aveva respinto l'invito della Fed a partecipare al salvataggio del Long Term Capital Management, il cui fallimento, nel 1998, anticipa tutte le brutte storie del nuovo secolo.
La crisi era precipitata nel momento in cui l'agenzia di rating Moody's aveva declassato una serie di obbligazioni Bear Stearns di tipo Alt-A rappresentative di mutui concessi a una clientela migliore di quella dei subprime ma ormai anch'essa in troppi casi insolvente.
La circostanza sollecita più di una domanda. Ci si può chiedere perché Schwartz e la sua prima linea ancora l'8 febbraio 2008 qualificassero come strong ogni attività della ditta di fronte al Forum del Credit Suisse. E sì che sei mesi prima la sorte di Warren Spector, l'aggressivo responsabile del settore mutui già locupletato con 37 milioni di compensation per il 2006, avrebbe dovuto consigliare cautela.
Spector, come a suo tempo riferì l'agenzia Bloomberg, se ne era andato a Nashville nel Tennessee a disputare un torneo di bridge e, per non essere disturbato, aveva staccato il cellulare per una settimana. Alla fine scoprì di essere arrivato 95esimo su oltre 4 mila giocatori e di avere sul suo tavolo, al 383 di Madison avenue, la lettera di licenziamento perché, nel frattempo, due hedge fund promossi da Bear Stearns erano falliti e il titolo aveva perso un quarto del suo valore.
Ci si potrebbe chiedere se e perché, nonostante quell'avvertimento, Schwartz non si sia accorto che una quota crescente dei debitori non pagava i mutui in vario modo connessi agli strumenti finanziari in portafoglio. E ci può anche chiedere se e perché, essendosene accorto, non vi abbia posto rimedio visto che era improbabile un'ulteriore dormita delle agenzie di rating, da mesi sotto schiaffo per aver chiuso gli occhi troppo a lungo. E infine ci si può chiedere dove fosse e quali strumenti tecnici e concettuali usasse la pur celebrata Fed di fronte a una banca con un capitale di vigilanza formato per 12 miliardi da patrimonio netto e da 70 miliardi di prestiti subordinati et similia, una leva finanziaria impensabile al di qua dell'Atlantico. Ma quando la frittata è fatta, è fatta. E allora resta solo un'ultima domanda: aveva altre opzioni la Banca centrale?
Certo, la mina andava disinnescata entro il fine settimana per evitare il panico. La Fed aveva due armi: la riduzione del tasso di sconto ela discount window che apre solo per un ristretto numero di grandi banche commerciali americane. Ben Bernanke, il presidente della Banca centrale, le ha largamente usate: ha tagliato di un punto i tassi e ha concesso 29 miliardi di garanzia. Si potrà malignare sulla patria della deregulation che ricorre agli aiuti di Stato e, dopo aver predicato la libera circolazione dei capitali, li riserva alle imprese domestiche non diversamente da quanto facevano le banche centrali della vecchia Europa prima dell'euro.
Ma resta il fatto che Bear Stearns era tecnicamente fallita: per onorare le sue obbligazioni, avrebbe dovuto realizzare attivi a prezzi di saldo imbarcando perdite tali da azzerare il magro capitale sociale e da trovarsi poi in stato di insolvenza. Il timore che il tracollo di Bear Stearns contagiasse il resto del sistema ha dunque fatto premio su tutto.
Poteva Bernanke scegliere un salvatore diverso da JP Morgan Chase? Nella notte fatale, ormai, non avrebbe potuto. Era troppo tardi. Bear Stearns è un animale abbastanza grosso. I suoi attivi ammontano a 395 miliardi di dollari, il 44% di quelli di Intesa Sanpaolo giusto per dare un'idea. Le altre banche d'investimento newyorkesi — Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Lehman Brothers — non hanno la dimensione e la liquidità necessaria per assorbirli. Arrivano al massimo a 1100 miliardi di attivi e, soprattutto, hanno mezzi propri per non più di 30-40 miliardi. Maggiori risorse si potrebbero trovare nelle grandi banche commerciali, ma Citi, Bank of America e Wachovia, a parte le difficoltà congiunturali talvolta gravi, non hanno l'esperienza di investment banking necessaria a prendere in mano una Bear Stearns e a valutarne gli attivi, tagliando quel che c'è da tagliare.
JPMC, invece, è il risultato dalla fusione tra la storica banca d'investimento JP Morgan e la grande banca commerciale Chase. Possiede il mestiere, ha attività totali quadruple rispetto a Bear Stearns e mezzi propri per 123 miliardi, e dunque ha anche la stazza. Di più, JPMC presenta un bilancio 2007 con un utile netto consolidato di 15 miliardi di dollari.
Resta tuttavia l'incognita dei rischi di controparte tra cacciatore e preda. Non si sa quale sia l'esposizione globale di JPMC, che capitalizza in Borsa 150 miliardi di dollari, verso Bear Stearns. Forse il dato verrà reso noto nel prospetto informativo sulla fusione, che seguirà la prima fase del salvataggio, ovvero l'acquisizione del 39,5% di Bear Stearns. Ma interpellate dal Corriere le fonti ufficiali tacciono.
E' stato invece chiarito che sui libri di Bear Stearns figurano 2 miliardi di subprime, 15 di mutui prime e Alt-A e 16 di commercial mortgage- backed securities. Di questi 33 miliardi, JPMC potrà cederne 20 alla Fed escutendo la garanzia. Che coprirà, per i 9 miliardi rimanenti, altri crediti di Bear Stearns sui quali JPMC avesse dubbi. La garanzia dovrebbe durare oltre un anno, ma la scadenza non è stata indicata. Né sono noti i criteri in base ai quali JPMC scaricherà gli attivi traballanti alla Fed. Eppure, sarebbe bene conoscerli per verificare come sono valutate le stesse obbligazioni da parte delle altre banche che le detengono.
Questa vicenda ha innovato sul campo una regola: ora anche le banche di investimento non potranno più fallire, nessuna potrà più essere abbandonata al proprio destino JPMC e a poco meno della metà del suo patrimonio netto tangibile, ovvero del patrimonio depurato dagli avviamenti che, per quanto certificati, sono in genere un po' meno attendibili di prima.
Nessuno oggi può dire quali saranno le prossime perdite di Bear Stearns, se supereranno o meno la soglia dei 30 miliardi di dollari. E' certo, comunque, che il primo miliardo di perdite lo assorbirà JPMC e tutto il resto sarà a carico della Fed. La quale dunque si è caricata sui suoi libri un rischio di 29 miliardi di dollari. E al tempo stesso — ed è quel che più conta — ha innovato sul campo la regola: ora anche le banche d'investimento non potranno più fallire. Non è infatti pensabile che Bear Stearns venga protetta ed eventuali concorrenti in crisi siano abbandonate al loro destino.
Questa innovazione di grande rilievo politico è stata presa senza alcun coinvolgimento di un potere politico che aveva forse dimenticato la leggina del 1932. Ma che ora dovrà pur verificare la tenuta e i costi dell'attuale regolazione».
Massimo Mucchetti

mercoledì 26 marzo 2008

Ventinove miliardi dalla Fed. Uno (1) da JPMorgan

I dettagli dell'operazione di salvataggio di Bear Stern sono a dir poco clamorosi. Basta leggere con un po' di attenzione il comunicato ufficiale pubblicato sul sito della Banca Centrale di New York per comprendere che dalle casse della Fed e del Tesoro arrivano 29 dei 30 miliardi di fondi utilizzati per arginare la crisi della banca d'affari specializzata in subprime. La Fed ha dato vita ad un apposito fondo da 30 miliardi di dollari (sottoscritto al 96% dalla stessa Banca Centrale) gestito da BlackRock che gestirà il portafoglio di prodotti finanziari di Bear. In pratica la Fed di New York ha preso in carico diverse "salsicce finanziarie" contenute in apposite Siv (società veicolo dove le banche scaricano i debiti).
Il comunicato ufficiale della Fed di New York rappresenta una pietra miliare della crisi http://www.ny.frb.org/newsevents/news/markets/2008/rp080324.html

La crisi non si supera. Nonostante la Fed

Nonostante gli sforzi di Bernanke, che ha messo a disposizione delle banche in crisi decine di miliardi di dollari anche accettando anche subprime e Siv, la situazione non sembra migliorare. Anche la Bce ha messo a disposizione liquidità ingente ma i timori di nuove crisi come quella che ha investito Bear Stern continuano a tenere banco nelle sale trading di tutto il mondo. Nel mirino soprattutto le grandi firme di Wall Street, come Merrill Lynch, ma anche le banche europee, come Credit Suisse. Intanto piovono i licenziamenti: nella piazza finanziaria statunitense sono già 34 mila i funzionari licenziati e le stime più pessimistiche portano a 100000 mila i posti di lavoro che si potrebbero perdere nella finanza newyorkese.

domenica 23 marzo 2008

Il piano per salvare le banche

Il Financial Times lo ha sparato in prima pagina, ma erano ormai alcuni giorni che di fatto la Fed stava già operando in tal senso: nell'industria del credito la fiducia è la moneta principale e di fronte alla crisi di credibilità il rischio sistemico è realmente alle porte. Sono alcuni giorni che il columnist del New York Times Paul Krugman lo ripete nei suoi interventi: la crisi assomiglia drammaticamente a quella che investì il credito negli anni immediatamente successivi al crollo del '29 del mercato borsistico e l'unica speranza è che l'azione di Bernanke abbia successo. Da quando la Fed di New York ha adottato il sistema delle aste TAF (Term Auction Facility), alla fine dello scorso anno, sono stati immessi nel sistema creditizio (soprattutto a favore delle grandi banche d'affari) 200 miliardi di dollari. In contropartita le autorità monetarie hanno accettato anche i CDO (collateralized debt obligations), cioè le salsicce finanziarie all'origine della crisi innescata dai subprime. L'ipotesi del Financial Times va un po' più in là, lasciando intendere che le banche centrali sarebbero pronte a rilevare gran parte dei "bidoni" presenti nel mercato del credito e forse anche delle assicurazioni per evitare lo scatenarsi di un circolo vizioso che potrebbe produrre un vero e proprio rischio sistemico.