lunedì 31 marzo 2008

Le caratteristiche della crisi - Bellofiore

Ecco l'altra interessantissima analisi sulla crisi finanziaria vista da Riccardo Bellofiore, docente di scienze economiche dell'Università di Bergamo, intervistato da Claudio Jampaglia per Liberazione di domenica 30 marzo


Crisi del sistema, non crollo
Sinistra copia Roosevelt

Claudio Jampaglia

Greenspan parla di crisi più grave dal secondo dopoguerra, altri economisti sono meno pessimisti: il tuo giudizio?
Non è solo Greenspan a parlare di crisi di dimensioni gravissime. Per trovare un paragone adeguato George Soros risale addirittura al 1929. Hanno ragione. Con tutta evidenza siamo a una svolta dentro la crisi, a una crisi del sistema. Intanto, però, la sinistra è stata abbacinata dall'ottimismo sostanzialmente apologetico del post-operaismo, dal pessimismo disfattista di chi si limita a registrare la frammentazione del lavoro o dal keynesismo fuori tempo massimo. Si accorge delle dinamiche profonde del capitalismo contemporaneo solo nei momenti di crisi conclamata. Crisi però non significa crollo. Significa ristrutturazione. E può significare, nei momenti di svolta, grande innovazione istituzionale di parte capitalistica.
Come è nata la crisi?
La crisi finanziaria della scorsa estate covava da tempo. Lo sgonfiamento della bolla immobiliare ha generato la crisi dei subprime (i mutui ad alto rischio alle famiglie povere) per aggravarsi e arrivare alla crisi delle banche di investimento. Il bisogno dell'intervento delle banche centrali quali prestatori di ultima istanza è divenuto parossistico, e la spinta ad una riduzione dei tassi di interesse si è rivelata irresistibile. Questa volta la crisi ha avuto come nodo cruciale il fatto che le proprietà requisite perdevano di valore, e sono iniziate le esplosioni nel campo minato della nuova finanza. Ciò che doveva rendere trasparente il mercato e minore il rischio ha fatto invece collassare le relazioni tra operatori per l'opacità dell'informazione, per la corruzione delle agenzie di rating , per l'impossibilità di sfuggire all'azzardo morale. Una smentita clamorosa di chi aveva scommesso sulla progressività del capitalismo dei "derivati", altra faccia del capitalismo della conoscenza. Ma è anche clamoroso che il "nuovo" capitalismo crolli sui due terreni dove, dopo il 1989-91, aveva reclamato una superiorità del mercato sul piano: l'informazione e la fiducia.
Come inquadreresti invece, teoricamente, la crisi?
Aiuta a capire qualcosa di quel che è successo un economista eterodosso statunitense morto nel 1996, Hyman P. Minsky. Per Minsky, il capitalismo tende sempre a far degenerare la stabilità in instabilità. Quando la prosperità va avanti da un po', le posizioni degli operatori da "coperte" si fanno più coraggiose, e divengono "speculative": in alcuni periodi i "profitti" sperati sono inferiori ai pagamenti per interesse e per restituzione del capitale, e ci si deve rifinanziare. Al rischio "economico" si affianca quello "finanziario", per l'aumento dei tassi di interesse o per la riduzione dei prezzi delle attività. Quando l'euforia diviene irrazionale, si intrattengono posizioni "ultraspeculative": ci si indebita nella speranza di futuri guadagni "eccezionali" (aumento del corso delle azioni, rivalutazioni degli immobili, ecc.), che soli possono giustificare l'investimento, senza quei profitti fantasiosi l'investimento non può che essere in perdita. “Le cose si dissociano, il centro non può reggere”, un verso di Yeats che Minsky citava spesso. Quando la bolla scoppia, l'alternativa è secca. Deflazione da debiti: con il fantasma del ripetersi di un Grande Crollo. Oppure intervento politico: la Banca centrale come "prestatore di ultima istanza", che inietta liquidità a basso costo e la spesa pubblica in disavanzo che sostiene i profitti monetari.

La crisi, quindi, si svolgerà in tempi lunghi su un cambio di regime del capitalismo e della politica economica?
Non si capisce nulla di questa crisi senza capire le novità del capitalismo contemporaneo e della sua politica economica di appoggio. Crisi finanziarie alla Minsky si sono avute a ripetizione dopo la svolta neoliberista degli inizi degli anni 80. La spiegazione di Minsky però da sola non basta. Minsky centra il ragionamento sulla domanda di beni capitali fissi, il che spiega poco della new economy e niente della ripresa Usa dal 2003. Resta comunque vero che dalla metà degli anni 90 lo sviluppo economico si ha con l'effetto "leva finanziaria" che ha sostenuto la spesa dei consumatori senza la quale l'economia mondiale sarebbe scivolata nella stagnazione. La bolla delle dot.com, come quella immobiliare, sono state legate soprattutto all'indebitamento delle famiglie. E hanno fatto dell'economia Usa l'acquirente di ultima istanza del capitalismo mondiale per i neomercantilismi europei e asiatici. Oggi questo circuito chiuso della realizzazione monetaria del plusvalore è in crisi. Si è accelerata la svalutazione del dollaro e sono iniziate le grandi manovre. Nella misura in cui la crisi sarà seria, come credo, il capitale sarà costretto a mettere mano al sistema di regolazione macroeconomico e agli equilibri geopolitici. Gli scenari vanno dalla crisi generale alla ricostruzione dell'edificio dalle fondamenta.

In questo quadro che succede alla terna lavoratore "spaventato" - consumatore "indebitato" - risparmiatore "terrorizzato" di cui hai parlato nei tuoi lavori?
Il risparmiatore terrorizzato è in realtà affetto da una sindrome "maniacale-depressiva". Il lavoro viene incluso nel capitale per il tramite degli intermediari e dei fondi, il risparmiatore viene cullato nella sua fase "maniacale". Grazie all'effetto ricchezza per la rivalutazione delle attività, il consumatore si indebita sempre di più. Ciò avviene in un contesto in cui il lavoratore è sempre più "spaventato" dalla pressione della ristrutturazione e della globalizzazione. Greenspan lo sa bene: è lui che ha coniato l'espressione lavoratore "traumatizzato". Per questo oggi, quando la disoccupazione cade, i salari non aumentano. La famigerata curva di Phillips, su cui si è incancrenito il dibattito tra gli economisti monetaristi e keynesiani per 40 anni, è ora piatta. Peccato che la compressione dei salari faccia sì che la domanda abbia bisogno di una inflazione dei prezzi delle "attività" per sostenere i consumi privati. L'esplosione della bolla fa emergere la fase "depressiva" del risparmiatore. Si diffonde il timore del crollo del consumo perchè tutti hanno necessità di rientrare dal debito. Queste dinamiche si traducono in ulteriore pressione nei processi capitalistici di lavoro. Il recente aumento dei prezzi del petrolio, delle materie prime, dei beni agricoli, dell'oro, in parte sono trainati da dinamiche speculative e di assicurazione rispetto all'incertezza schizzata alle stelle, in parte hanno a che vedere con la ristrutturazione geografica e politica del capitalismo attuale, in parte sono legati alla svalutazione del dollaro. Le politiche monetarie, in primis quella della Bce, fanno sì che questi aumenti ricadano sui lavoratori, riconfermando la deflazione salariale. La promessa di recuperare il potere d'acquisto grazie alla riduzione dei prezzi o alla partecipazione alla rendita finanziaria non è altro che un miraggio.

Consumatore indebitato, risparmiatore "maniacale-depressivo". E il lavoratore?
La sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito non è separata dall'approfondimento dello sfruttamento nella produzione. La centralizzazione finanziaria e del comando, il primato nella filiera produttiva, si accompagna a dimensioni tecniche di impresa che crescono meno di un tempo (di qui anche il recente risorgere delle "medie" imprese), e ad un lavoro che non viene omogeneizzato dalla sua concentrazione giuridica e tecnica nello stesso luogo, e/o nella stessa "fabbrica", e/o nello stesso contratto. La soggezione delle "famiglie" ai mercati finanziari e al debito per il consumo costringe a tempi di lavoro più lunghi e intensi, e muta la natura del lavoro: che da attività svolta secondo un piano e sotto controllo diretto diviene, quale che sia la natura giuridica del rapporto, compito da svolgere con "flessibilità" in una finta autonomia. Tutto ciò è accelerato dai criteri di gestione legati alle nuove strutture proprietarie e di controllo. Sono i gestori dei fondi pensione, che raccolgono i risparmi vitali dei lavoratori, a pretendere rendimenti elevati sul capitale proprio, a volere scelte penalizzanti sull'occupazione e sulle condizioni di lavoro di altri lavoratori, a spingere sul pedale delle esternalizzazioni. Il "capitalismo patrimoniale" vede un primato dei piccoli azionisti, ma in forma alienata, per cui a decidere sono coloro che hanno il potere di gestire quel risparmio, e pretendono nel breve termine alti tassi di rendimento sul capitale proprio.

Stai descrivendo un modello trainato solo dalla speculazione. E' la fine del liberismo per come lo abbiamo conosciuto?
E' in parte vero che è un modello tirato dalle dinamiche speculative. Non puoi però separare finanza ed economia reale. Sono queste dinamiche finanziarie ad aver sostenuto la domanda effettiva negli ultimi 10-15 anni. Sono queste stesse dinamiche a determinare ora la crisi reale. Quello che descrivo è una sorta di paradossale "keynesismo" finanziario, in cui i profitti futuri si nutrono di debito crescente, non solo delle imprese o dello Stato, ma anche e sempre più, delle "famiglie". I bassi salari vengono compensati dagli effetti ricchezza su una ricchezza cartacea o immobiliare talora fantasiosa, che può svanire da un momento all'altro, e a quel punto il riaggiustamento è violento. Si potrebbe definire una espansione della domanda tirata dalle bolle speculative nelle "attività", politicamente gestita. Altro che liberismo! Parola che la sinistra usa a sproposito: salvo poi stupirsi di un Tremonti, e scambiare i social-liberisti per liberisti temperati.

Mancanza di crescita, che lascia la finanza in assoluta balia di se stessa, risponderebbero in molti...
La crisi del 2000-1 fu tamponata con più moneta, più spesa militare, meno tasse per i ricchi, e si prolungò sino a metà 2003. Le imprese, nel frattempo, ripianarono i propri bilanci. La crescita degli anni successivi non ha più avuto a che fare con dinamiche di innovazione tecnologica. La crescita è ripartita solo grazie all'indebitamento delle famiglie povere. Il mercato immobiliare era stato favorito dal crollo dei tassi di interesse dell'inizio del terzo millennio, e venne in soccorso di un nuovo modello in difficoltà appena nato. Con prezzi delle case che salivano, e con la rinegoziazione dei mutui ipotecari a tasso variabile, le case erano diventate un bancomat. La Federal Reserve ha favorito questo processo, prima sostenendo i prezzi dell'immobiliare, poi per il tramite dei nuovi strumenti di credito finanziati dalle banche commerciali. Ora deve correre in soccorso e puntellare l'edificio che crolla.

Che ne pensi del riemergere dello spettro del 1929?
Qui ci è ancora utile Minsky. Il quesito "Potrebbe ripetersi?" riemerge ciclicamente. Minsky era scettico, a ragione, sul ripetersi di un Grande Crollo. Il laisser faire è per i poveri, non per i ricchi: ne abbiamo la testimonianza in queste settimane. La Banca Centrale non si limita a fornire liquidità a basso costo: non ha scelta, deve salvare la casino economy . La politica monetaria ha però efficacia limitata, specie se il problema è l'insolvenza. Bernanke non si è potuto fermare a ridurre, sempre più a rotta di collo, i tassi di interesse. Ha dovuto aprire linee di credito non solo alle banche commerciali ma anche alle banche di investimento: una delle innovazioni istituzionali cui accennavo. Deve accettare come collaterali strumenti della finanza "tossica". Ha fatto acquistare a prezzi di saldo Bear Sterns, dando all'acquirente la garanzia di un credito enorme nel caso di brutte sorprese nei bilanci di quella società. Si parla ora di un possibile acquisto diretto sui mercati delle mortgage backed securities da parte dello Stato. Prossimamente, possiamo attenderci mosse coordinate tra le banche centrali sul dollaro, per far sì che la necessaria svalutazione sia "ordinata" (e tra parentesi non credo ad una fuga suicida dal dollaro di Cina e altri paesi creditori, al limite a differenziazione dei nuovi flussi di investimento). Solo così il rapporto con i paesi esportatori negli Usa può essere tutelato. Solo così l'entrata in campo dei fondi sovrani per ricapitalizzare fondi e banche in crisi può essere facilitato. E' in atto un "deceleratore finanziario" potentissimo. Quando il ciclo si inverte, le perdite costringono le banche a snellire i loro bilanci, questo induce a vendere attività. Cadono i loro prezzi, si amplificano le perdite delle banche, in una perversa spirale al ribasso. Gli istituti di credito devono stringere ulteriormente i cordoni della borsa. Per questo arriveranno interventi sul come valutare le attività nei bilanci delle istituzioni creditizie (non più ai valori di mercato: conveniva ieri, non più oggi) e regole più restrittive del credito.

Esiste la soluzione di un ritorno al keynesismo?
No - nè era questa la risposta dello stesso Minsky, un keynesiano ben cosciente dei limiti del keynesismo per come lo abbiamo conosciuto. E', detto tra di noi, abbastanza paradossale che chi dava per obsoleto Keynes al cambio di millennio, oggi lo invochi. Non vi è dubbio che nel capitalismo finanziariamente sviluppato siano necessari elevati e crescenti disavanzi del bilancio pubblico. Occorre un Big Government . Minsky però ci avverte che l'intervento della Banca Centrale e i disavanzi di bilancio, se non qualificati nei contenuti, si limiteranno a riprodurre nel futuro su scala allargata, il ciclo instabilità -crisi. Occorre una "socializzazione degli investimenti": formula di Keynes, di cui Minsky dà però una lettura radicale. Un piano del lavoro che garantisca la piena occupazione. Investimenti pubblici che migliorino la produttività del sistema. Minsky ha in mente il New Deal , non il keynesismo degli anni 60-70, che detestava. Oggi, la sinistra ha paura di parlare di queste cose, e balbetta di qualche correzione distributiva.

La sinistra, quindi, è radicale a parole, ma poco nelle analisi e nelle ricette?
Una forza di sinistra non è tale se non pone sul tappeto il tema della ridefinizione strutturale della produzione. L'età keynesiana si è chiusa con una crisi direttamente sociale. Non si pose in discussione solo la distribuzione, ma anche modi del lavoro, contenuti della produzione, riduzione di corpo e mente a mero strumento. Il capitale ha risposto con la svolta monetarista, che fece impennare la disoccupazione di massa. Ne è seguita la "centralizzazione senza concentrazione": che ha frammentato il lavoro, trasformato la disoccupazione in sotto-occupazione, precarizzato la vita. La crisi del nuovo capitalismo è anche l'insostenibilità, economica ed ecologica, dei modelli di produzione e di consumo. Non se ne esce se non si è in grado di riprendere la sfida su "cosa" e su "come" si produce. E' qui che si uniscono in avanti le ragioni del lavoro, della natura, del genere. Su questo la sinistra tace, o rimanda a tempi migliori, e ragiona per somma delle "differenze". E' chiaro che limitarsi a parole d'ordine contabili sulla finanza pubblica o a domande redistributive, è inefficace e subalterno. In questi anni, d'altronde, non ci ha portato da nessuna parte. E' mille volte più coraggioso Howard Zinn che proprio su Liberazione (ripreso da The Nation ), proponeva: "Se facessimo come Roosevelt?". E viene dalla sinistra radical degli Stati Uniti, che siamo abituati a guardare dall'alto in basso. A me pare che, oggi, o si parte da una doppia dichiarazione di fallimento - della sinistra radicale italiana, che in questi anni ha sbagliato pressochè tutto, dalle analisi alle proposte; e dei suoi intellettuali di riferimento, in primis gli economisti - o il "nuovo inizio" di cui tanto si parla e che tanto si invoca, non vedrà mai la luce.

1 commento:

alberto ferrari ha detto...

La lettura dei giornali ed i dibattiti che si susseguono sulle reti televisive evidenziano un fatto strano: la grave crisi economica che stiamo attraversando è il frutto amaro delle politiche della destra, ma nessuno sembra volerlo chiarire e denunciare. Non lo denuncia neppure una larga parte della sinistra, e i molti liberal o pseudo tali, volti piuttosto ad ammonire che ora non è tempo di trovare le colpe, ma di cercare le soluzioni. Fingendo di dimenticare che, senza un’approfondita analisi tecnico-politica di ciò che avvenuto e del perché è avvenuto, si rischia di affidare le soluzioni della crisi agli stessi che l’hanno determinata. E ciò non è proprio la soluzione migliore. O, forse, è proprio perché una parte rilevante della sinistra si è fatta, in questi ultimi anni, troppo sedurre dal pensiero neoliberista allontanandosi, in modo pericoloso, dai propri valori e dalla propria cultura. Sarà bene rifletterci perché, se è vero che la storia non si ripete mai eguale, è però vero che essa insegna molto per affrontare l’oggi ed il domani.
Il seguito, se vuoi, lo puo leggere su: http://blog.libero.it/socialismo/8009181.html